Abituarci alla guerra

Parlare di guerra per abituarci alla guerra

Domenico Arcuri, ‘commissario straordinario’ della protezione civile per il coronavirus, già AD di Invitalia, con un futuro ai vertici delle politiche economiche in Italia, parlando dell’acquisto attuale, e dell’auspicata produzione in loco di dotazioni per la protezione contro i virus come di apparechiature per la terapia, parla definendole ‘munizioni’ perché “siamo in guerra col virus”.

Ed insiste con il termine, avremo queste munizioni, useremo queste altre munizioni. Il tutto nel giorno in cui l’ennesimo decreto di un governo che non ha fatto nulla da dicembre, quando già si sapeva dell’inizio dei contagi, si sente definitivamente ‘costretto’ ad introdurre altre misure restrittive: l’esercito per strada, che già c’era, ma ora molto di più (forse che la cosa ricorda le direttive del documento Nato Urban Operations 2020?); nuove e maggiori limitazioni alla circolazione dei cittadini; l’ennesimo, ormai quasi quotidiano, nuovo documento per l’autocertificazione, unico salvagente da sanzioni arrivate a cifre dai 400 ai 3000 euro; uso dei droni da parte delle varie forze di polizia, strumenti che arrivati ora, non ce li toglieremo più dai piedi con tutto quello che comporterà a livello di controllo e repressione politica e sociale; e si potrebbe andare oltre, dall’uso, ormai abituale, dei media embedded al solito tentativo di trasformare i cittadini in poliziotti o giustizieri.

Ma questa è storia di giorni addietro, dispersa nella dilatazione di un fluire del tempo difficile da seguire fra le notizie che parlano di morti e guariti, di contagiati e sanzionati; fra stipendi che vanno all’indietro e giornate che vanno in avanti senza immagini di sbocchi futuri.

Nel frattempo il governo approva il ‘bazooka’ per aiutare le imprese, ed il refrain ‘siamo in guerra’ rimbalza dovunque: dalle pagine, cartacee o virtuali, dei notiziari, ai ringraziamenti di figure del mondo sanitario che fino a ieri sono state compresse nella ristrettezza dei mezzi e degli organici, nella negazione dei diritti sindacali fino alla negazione degli indispensabili strumenti per occuparsi dei colpiti dell’epidemia senza divenire loro stessi colpiti e diffusori.

Guerra insomma, di questo ci parlano. E su questo argomento, bisogna riconoscere che sono esperti, se è vero che, oltre ai vari politici coinvolti e complici di tutte le missoni di guerra che l’Italia, ma del resto anche gli altri paesi, continuano a tenere in atto, anche i commissari speciali nominati per gestire una emergenza di tipo sanitario, curiosamente non sono medici, scienziati, biologi, ma economisti, e guarda caso nelle due figure principali, Arcuri e Colao, sono entrambi, chi in passato recente, chi in futuro forse interrotto da questo incarico, in orbita Leonardo. Non esattamente biomedicale, ma produzione bellica semplicemente.

Ecco cosa dice il Corriere della Sera della squadra messa su da Colao per gestire la cosiddetta fase due, riapertura della produzione: “Se epidemiologi e virologi hanno dominato nella fase 1, a disegnare la fase 2 sono chiamati 3 top manager, 3 economisti, 2 sociologi, una psicologa, uno psichiatra, un fisico esperto di innovazione, uno specialista del lavoro, un avvocato, un commercialista e un esperto di disabilità.”

Sembra chiaro il fatto che, se di guerra si tratta, il nemico per loro è il PIL in crollo, è la crisi finanziaria che già stava arrivando prima che il Covid-19 la precedesse, perlomeno qui, dato che in alcuni paesi, fra cui il Giappone, la recessione era già in atto.

A fronte proprio di questa crisi finanziaria, su cui i loro stessi economisti avevano avvertito da mesi, gli industriali hanno impellente bisogno di ‘lavorare’ (loro?), di produrre, di spremere. Quale migliore occasione per levarsi di torno un po’ di forza lavoro riducendo i costi, soprattutto i conflitti sindacali, batter cassa allo stato ed alle banche a loro volta sempre aiutate dallo stato? Ma soprattutto, continuare e riprendere a produrre. In questo senso è facile capire gli atteggiamenti criminali di Confindustria che in Lombardia ridicolizzava la minaccia sanitaria in nome della continuità produttiva, così come ora spinge per riaprire tutto, possiamo immaginare con quali tutele di sicurezza dei lavoratori; argomento che da sempre, anche ben lontani da emergenze virus o altro, vede lavoratori mandati allo sbaraglio a spese della loro salute quando non, spesso, della vita.

Ma il linguaggio di guerra che usano non è una allegoria, una metafora per far capire quanto sono coinvolti. Ha lo scopo di abituarci alle guerre che nel frattempo continuano a condurre dovunque nel mondo. Forse che qualcuno si è illuso che, causa Covid-19 il lockdown abbia coinvolto i bombardamenti sulle popolazioni dello Yemen? O nella Striscia di Gaza? In Libia? Siria? E la lista potrebbe continuare per un bel po’. La risposta è ovviamente no. Solo che stanno usando questa bella tragedia, oltre che per i loro fini economici locali, anche per inglobare tutto e tutti nelle loro logiche di guerra per il profitto.

Cade nel vuoto la lettera di un’infermiera genovese che scrive ‘Noi curiamo la gente, non facciamo la guerra’. Lettera che rimane confinata ad una testata locale. Gli altri continuano a parlare di combattere, di battaglie, con tanto di disegni in cui dei soldati sparano siringhe contro un nemico che attacca con le sembianze grafiche del virus.

Ma questo linguaggio non è solo parlato, disegnato, filmato. Molto peggio. È agito, nel momento in cui vengono fisicamente massacrati i prigionieri che protestano per il fatto di vivere in una promisquità che li espone ad una quasi certezza di contagio; nel momento in cui, come suggeriva il famoso documento Nato Urban Operations 2020 le truppe vengono spostate dai teatri di guerra esterna (l’Italia ha disposto il rimpatrio di 300 militari dall’Irak) per affrontare scenari di guerra interni previsti più che attuali, nelle proprie città. Nel momento stesso in cui entità sempre più militarizzate come la Protezione Civile tendono ad assomigliare a strutture para-militari come la Guardia Nazionale degli USA. Per ora non hanno armi in dotazione, ma strumentazioni di sicuro, e competenze pure, basti vedere il loro ruolo nel contenimento dei terremotati in Abruzzo. Struttura che vede al suo interno, a parte associazioni di simpatizzanti o ex appartenenti a questo o quel corpo militare, anche associazioni naziste come Nuova Acropoli.

Il tutto facendosi beffa e strumentalizzando, come si diceva, tutte quelle figure che di fatto, se esiste una prima linea, e dal punto di vista del lavoro esiste di sicuro, oltre a prodigarsi in turni estenuanti, stanno mettendo a rischio l’incolumità propria e quella dei loro famigliari, togliendo le castagne dal fuoco ad una classe, la borghesia, che li ha ridotti in condizioni disastrose per favorire i loro amici delle cliniche private.

La reazione della classe lavoratrice non è affatto nulla, pur in queste difficoltà di movimento, ma ha bisogno di qualcosa di più che dei tutorial per farsi anticipare (a rischio) la cassa integrazione dalle banche. Perché mancano in primo luogo le reti, abbozzate dalle Brigate che volontariamente stanno aiutando persone in difficoltà, ma che soprattutto dovrebbero stabilire connessioni pratiche, sociali e politiche, oltre che di solidarietà, per consentirci di far fronte a queste situazioni che non sono solo né principalmente emergenze sanitarie, ma una fase storica in cui la crisi causata dal capitalismo, oltre ad erodere i livelli di salute del pianeta e delle persone, farà precipitare in basso le condizioni di vita di milioni di proletari, preparando oltretutto un’espansione e diffusione delle guerre già in atto, perché è ovvio che un pescecane in difficoltà, è disposto a tutto pur di sopravvivere.

Non è un caso se certe produzioni o certi traffici non si sono mai fermati. Non si sono fermate le fabbriche di armamenti, né le navi (porto di Genova docet con l’ennesimo arrivo di un’altra nave della Bahri) hanno smesso di far girare strumenti di distruzione. L’ipocrisia delle lacrimucce per i morti di o con Covid-19 (altra cosa che andrebbe chiarita) finiscono ai cancelli di queste fabbriche e sulle banchine in cui queste navi proseguono i loro carichi di morte. Come d’altronde proseguono gli ‘incidenti’ sul lavoro, nei quali a questo punto è d’obbligo inserire medici, infermieri ed altro personale che appresso a questa loro strategia di produzione prima di tutto, ci hanno lasciato la pelle.

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