Tendenza alla guerra o tempo di guerra?

Tendenza alla guerra o tempo di guerra?

Dietro e ben oltre i discorsi, molti, troppi, soprattutto in tempi di comunicazione saturata (ma non correttamente utilizzata) dall’evoluzione tecnologica, ci sono dati reali, concreti e pure troppo, che smentiscono, e talvolta rovesciano, i concetti che si stanno rendendo protagonisti del dibattito/scontro ideologico/concettuale di questo momento.
Lo stakhanovismo ‘intellettuale’ sta facendo gli straordinari per dimostrare che la colpa di questo o quello è del terrorismo, dell’espansionismo del proprio avversario, del neoliberismo, dell’Unione Europea, dell’islamismo, eccetera eccetera, perché l’elenco delle scuse è da sempre troppo lungo.
C’è però uno sforzo, e qui parlo del campo comunista, che si fa per far capire ai comunisti (non Diliberto, i comunisti), e raramente alla classe, anche per via di ovvie difficoltà, che il capitalismo attuale (questo è l’unico termine calzante, generale, non di fase o fuorviante) a causa delle sue crisi giunte al punto strutturale, tende alla guerra. Sforzo sacrosanto, ma un poco in ritardo. Perché la guerra già c’è.
Evito l’elenco dei vari conflitti in atto al momento nel mondo, elenco in cui vanno inclusi gli scenari di tregua momentanea o apparente. Un buon esempio che possa spiegare di cosa sto parlando lo si trova, fra altre fonti, nel sito Guerre nel Mondo, http://www.guerrenelmondo.it/?page=static1258218333.
Sicuramente partirà l’obiezione sul fatto che si tratta per la stragrande maggioranza di conflitti locali; i più maliziosi sosterranno che non tutti i conflitti sono di carattere inter statale, ma spesso di origine tribale, localista, di politica interna, e via dicendo.
Qualcuno sarà probabilmente anche in buona fede, altri no. Perché va ricordato che anche per la Libia si era parlato di guerra tribale, mentre in realtà si trattava di una aggressione in piena regola nei confronti di uno stato ed un regime che, simpatici o no, stavano cercando di svincolare il continente africano dal controllo di FMI e consociate strutture del controllo imperialista a guida USA/UE (anche se in questo caso alcuni paesi UE, Italia in primis, già avevano il loro tornaconto nel sopravvivere del regime di Gheddafi, e giocoforza si sono dovuti accodare al macello per non restar fuori dalla divisione del bottino). Nessuno, nemmeno per un istante, avrà per la testa l’idea balzana secondo la quale Gheddafi aveva in mente il benessere dell’operaio o del contadino di turno. Ma se non si considera guerra questa, forse bisogna chiarirsi sul concetto di guerra.
Certo fino alla Seconda Guerra Mondiale, la questione era (più o meno) chiara. Ho dei contrasti con quel paese, non c’è verso di risolverli, i contrasti si acuiscono, dichiaro guerra. Il tutto senza stare a perdere tempo con principi come quello della correttezza, onestà, coerenza (la biografia di Cavour e soci la dice lunga). Il casus belli, normalmente, arriva a togliere tutti dall’imbarazzo del trovare una ragione per scatenare il conflitto che di ragioni, economiche sempre, ne ha a bizzeffe.
Già in seguito le cose cambiano, e si possono fare gli esempi delle guerre di Algeria, Vietnam, Corea, Cambogia, Laos, Palestina, nelle quali vengono invocate, da parte dell’aggressore, ragioni dettate da una sedicente civilizzazione, lotta al terrore, diritto storico al possesso (più che storico, mitologico), eccetera.
Va inserito a questo punto un breve inciso, che riguarda la consapevolezza da parte della popolazione di uno stato (ma a noi interessa di più la classe lavoratrice), di essere in guerra con un altro popolo (classe di un altro paese), anche se a loro si parla di un altro paese. E ci sarebbe da andare a vedere cosa ne pensava la classe operaia italiana dell’invasione di Libia, Etiopia, Albania, eccetera agli inizi del 1900. E d’altra parte, una loro classe operaia l’avevano anche i paesi che aggredirono la nascente Unione Sovietica. Questo giusto per chiarire il fatto che quando il capitalismo parla di guerra, soprattutto in questi tempi recenti, ma come ha sempre fatto, ha una grande abilità di rivoltare la frittata per fare in modo che sembri quel che non è e che non sembri quel che è.
Se vogliamo però stringere i tempi, ed arrivare ai giorni nostri, solo un asceta che vive su un monte da almeno un decennio (ma non basta) senza alcun tipo di contatto con il resto del mondo, potrebbe non rendersi conto dello stato di guerra ormai incancrenito in cui vive il mondo. Come si diceva sopra, serve a poco fare l’elenco. Se si vuole farla più breve, ma ugualmente esplicativa, basta parlare in termini di continenti.
Australia? Guerra guerreggiata forse molto poca, non in loco, anche se i loro militari sono impegnati in varie parti come ‘forza di pace’, concetto alquanto incomprensibile dato che sono armati e impongono alle popolazioni locali questo o quel modo di comportarsi, vivere, muoversi. Il confine con il termine guerra è forse solo semantico. E sul piano economico già si stanno accingendo ad una guerra, per ora solo economica, contro l’espansione mercantile cinese.
Africa? Il nome degli schieramenti in campo inganna ormai solo gli analfabeti funzionali, quelli che non sono, o non vogliono, essere in grado di capire un discorso che vada al di là della punta delle scarpe. La favola delle guerre tribali ormai concilia i sonni di chi vuole evitare di rendersi conto di essere concausa dei detti conflitti, con il suo cellulare/portatile alimentato a coltan, o la sua auto, SUV o meno, che mangia idrocarburi tradotti col sangue delle popolazioni locali.
Asia? A partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica (e non stiamo parlando del papà buono) e del ritorno del figliol prodigo Cina nel kindergarten del capitalismo, si fa fatica a trovare un paese non coinvolto in un qualche conflitto, piccolo o grande che sia. L’Afghanistan è indicativo.
Sud America? Qui le cose vanno come sempre, c’è una guerra, ma non si può dire, c’è una aggressione che continua da sempre, ma non si può dire. Anche perché le guerre, e questo va sottolineato, non sono necessariamente e solo fra un paese ed un altro, fra un sistema economico ed un altro, ma sempre più riguardano le classi sociali, anche se non per questo si può parlare della lotta di classe cui mirano e si rivolgono i comunisti. Che si tratti dei campesinos, o dei sem terra, o delle piccole o medie borghesie argentine, il confronto assume i tratti di una guerra nel momento in cui si vedono toccati gli interessi del capitalismo multinazionale, per cui tutto è valido, dallo strangolamento economico (guerra) allo scatenare squadroni della morte e narcos (guerra), fino allo scatenare sommovimenti di classi medie e sottoproletari (guerra) o comprarsi governi diretti da ex operai ed ex guerriglieri venduti (guerra).
America? Una classe operaia a suo tempo (lontano) combattiva, ingabbiata in sindacati mafiosi, in nome della potenza economica del paese, che ora, col paese che boccheggia e si regge solo a colpi di missile, sono costretti ad accettare tagli del salario anche del 50% (Chrysler), a vedere città desertificate nelle quali, di fianco ai palazzoni ed alle villette esplose in ogni dove, ora si vedono le tende degli sfrattati (guerra). Un riesplodere del massacro della popolazione nera, a livelli da anni ’60 (guerra).
Europa? Concluso lo smembramento della Jugoslavia a colpi di bombe all’uranio impoverito, la trasformazione dell’Albania a favore delle cosche mafiose locali, l’uso delle famigerate rivoluzioni arancione nei paesi dell’ex Comecon, per finire nella Valpurga nazista dell’Ukraina, poco da commentare.
Qual’è il punto allora, fra chi parla di tendenza alla guerra ed il rendersi conto che guerra è già?
Forse nel comprendere il fatto che la guerra non è un fenomeno dato, immutabile, perenne ed eternamente riconoscibile secondo gli stessi canoni di sempre. Non bisogna conoscere a menadito Sun Tzu o Von Clausewitz per sapere che la guerra assume aspetti e sembianze diverse a seconda del momento storico. Il punto fondamentale consiste nel comprendere, e tenere bene a mente, che la guerra, sia essa la prosecuzione della politica con altri mezzi, come diceva Machiavelli, o, come si dice oggi, sia proseguita con altri mezzi dalla politica (Michel Focault), è pur sempre lo strumento tramite il quale le varie componenti della borghesia imperialista si affrontano per strapparsi pezzi di mercato e basi produttive. Ed in questo, non si può non rendersi conto del fatto che la guerra, non è tendenza, ma è già in atto. Ora. In questo momento. Sia nella forma di guerra inter imperialista, sia nella forma della guerra fra le classi. Se poi a sparare sono solo quelli di una delle due parti, non significa nulla. In molte parti del mondo, i prodi guerrieri mandati dal capitale sparavano su popolazioni locali che al massimo brandivano lance, arco e frecce. Se la classe operaia della maggior parte dei paesi a capitalismo avanzato continua a farsi imbonire da finti socialisti e malmenare da veri guerrieri del capitale, non vuol dire che fra questi ultimi c’è qualcuno in malafede, ma piuttosto che fra i primi la maggior parte non hanno ancora capito che la guerra c’è, e che menano da una sola parte.
Ma la guerra in senso proprio, di per sé è cambiata e sta cambiando, e lo dimostrano, anche facendo astrazione dalla fenomenologia mediatica, i fatti degli ultimi anni. Mandare un esercito ad occupare un paese, reprimere un’etnia piuttosto che una corrente ideologico/religiosa, in tempi di comunicazione telematica che è in grado di raggiungere, non certo chiunque, ma sicuramente un numero di persone inimmaginabile fino a vent’anni fa, inserendo l’occupazione con un peggioramento vorticoso delle condizioni di vita di quanti subiscono (e dall’altro lato della frontiera foraggiano e a loro volta subiscono) l’aggressione, come ogni azione in fisica, comporta una reazione uguale e contraria. In assenza al momento di una connotazione di classe, questa reazione prende la fisionomia che più si adatta al territorio, e può diventare, nel bene, bolivarismo, che non è certo comunismo, ma ben peggio può finire nel ritorno, o meglio, nel riutilizzo, di sentimenti ideologici retrivi e reazionari, come i fondamentalismi religiosi. Inutile dilungarsi. Mentre gli uni agiscono localmente, creando un senso di appartenenza ed una voglia di riscatto nelle popolazioni coinvolte in un processo politico economico ben preciso, ma non diretto e rivolto alla classe operaia, nell’altro, possono prescindere tranquillamente da un territorio specifico, pur avendo un riferimento rispetto a questo o quello, ma proprio incarnando l’idealizzazione di una entità, territorio o concetto che sia, farsi guerrieri di questo dovunque ci si trovi. E questo mette fuorigioco le capacità di controllo e repressione anche degli stati più avanzati sul piano del controllo sociale e del dominio politico/militare.
Con un certo benevolo cinismo, usato sempre dal campo di chi al momento le prende e basta, si potrebbe comunque dire che quattro schiaffi male non ci farebbero, se almeno ci facessero vedere che tutto sommato ce li meritiamo in quanto quelli che traggono vantaggio dallo sfruttamento e dal massacro di lavoratori di altri paesi, uguali a noi, gli stessi che, quando ce li troviamo di fronte nelle nostre città, discriminiamo sulla base di concorrenze assurde, ideologie razziste che ieri venivano usate contro di noi stessi, identificazione con ogni male possibile, non vedendo che il comportamento che prevarica e violenta, oltre ad essere patrimonio che deriva da questo sistema economico e sociale, non ha colore di pelle, non parla una lingua e non ha bisogno di passaporto o permesso di soggiorno. Purtroppo, ha tutti i colori, parla tutte le lingue ed ha libero accesso dovunque. Contrariamente agli sfruttati in quanto tali, che dovrebbero iniziare a capirlo. Ed a capire la guerra.
E se ci facessero una volta per tutte capire che non è la forma dello sfruttamento (neoliberismo, globalizzazione) il problema, ma piuttosto la sua sostanza. Anni fa un manifesto per l’indizione di uno sciopero generale nello stato spagnolo recitava: ‘Nunca tan pocos robaron tanto a tantos’. La responsabilità arrivati a questo punto non sta nei ‘pocos’ che rubano tanto, ma nei ‘tantos’ che permettono loro ancora di rubare.

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