Django ai tempi del MUOS

21 gen 2013 11:05 pm

Django ai tempi del MUOS

Django ai tempi del MUOS

Il sottofondo musicale di Ennio Morricone accompagna Carletto Bronzino (trad USA Charles Bronson) che col suo cavallo viene verso l’obiettivo portando con sé il corpo del suo amico Ceièn (trad USA Cheyenne) lasciandosi alle spalle lo scenario risultato del motivo di tutto il massacro che attraversa il film da inizio a fine: la nuova ferrovia verso la nuova frontiera. Spaghetti western di Sergio Leone, 1968.

Qualche malintenzionato potrebbe insinuare che un finale simile potrebbe avere la questione TAV nella Val Susa, se finissero per prevalere gli interessi degli “amici degli amici” che vogliono spartirsi il malloppo per gli appalti.

Ma in un’intervista Quentin Tarantino, parlando del suo film Django unchained che è uscito sul territorio italiano in questi giorni, spiega che la sua passione per i western è dovuta anche al fatto che questi, in ogni epoca, hanno saputo descrivere bene il periodo in cui venivano prodotti: maccartismo, guerra del Vietnam, Watergate eccetera. Preso per buono questo, anche il suo Django dovrebbe rientrare nei canoni. E allora…

Nonostante l’annuale fiera, fuori piove. Il vecchio teatro, alla proiezione delle 19 è tutt’altro che pieno, contrariamente a quanto ci aspettavamo. Posto comodo nella parte centrale, gambe allungate, inizia la proiezione. Inserirei a questo punto una serie di omissis per non rivelare nulla del film a quanti intendano vederlo. Ma gli omissis ricordano molto quei politici che, agli albori degli “amici degli amici”, con questa parolina coprirono e tuttora coprono le loro porcherie. Passo perciò direttamente a quanto dicono del loro film regista e attori.

Film rivoluzionario, dice Di Caprio, tutti si spendono in auto congratulazioni per aver confezionato un prodotto sinceramente antirazzista, anzi, di più, il giornalista di una nota emittente nazionale lo definisce antifascista, e Tarantino gongola, per aver sbeffeggiato il Ku Klux Klan, per aver creato un eroe nero che armi in pugno libera se stesso e i suoi simili dalle catene (unchained), eccetera eccetera, per finire con la certezza che il presidente Obama, che non ha certo il tempo di andare al cinema per lui, sicuramente vedrà prima o poi il film e sicuramente gli piacerà. Ed è qui che casca l’asino, povera bestia sempre lui come al solito.

L’attore Christoph Waltz quando gli viene fatta una domanda sulla schiavitù risponde, in maniera intelligente, che per lui è molto difficile interiorizzare il vero significato della questione, può al massimo ideologizzarlo. Il traduttore ovviamente ometterà una parte della risposta. Gli altri attori, inclusa Kerry Washington, capelli stirati all’occidentale in perfetto stile Naomi Campbell, si dilungano tutti sull’importanza di denunciare la schiavitù e la discriminazione razziale. Viene addirittura citata la partita di calcio fra Milan e Pro Patria come esempio. Ma l’asino raglia, e bisogna allora ascoltare anche lui, che ci domanda come mai giustamente si condanni e si colpisca duramente (sullo schermo) un aguzzino razzista, e nello stesso tempo si speri che il capo dei “ragazzi in divisa” che massacrano migliaia di civili in giro per il mondo chiamandoli “ciucciacapre”, “chiavacammelli” eccetera, vada a vedere ed apprezzi il film. Ma è solo un povero asino.

Sempre il simpatico Waltz cita l’Illuminismo, periodo storico che ha scrollato (perlomeno in apparenza) l’umanità dall’oscurantismo dei poteri monarchici e delle confessioni religiose assolutiste (oops, ci sono ancora). Per dire che in quel periodo i piccoli staterelli che conformavano la penisola, si affrontavano, ma alla fine dicevano tutti “siamo italiani”. In un’intervista in cui tutti cercano di dare sfoggio di conoscenze culturali in fatto di storia italiana e del cinema, con speciale riferimento al cinema per l’appunto italiano, pare strano che nessuno conosca pellicole come Bronte storia di un massacro, o Li chiamavano briganti, che chiunque ai tempi dei Torrent puà reperire in rete. E se il cinema è specchio della realtà, evidentemente non hanno idea dei massacri compiuti in nome della “unificazione d’Italia”. Ma sono americani, per cui conoscono certo meglio la loro realtà, errori su quelle altrui sono comprensibili. Waltz dice che della schiavitù lui, austriaco. Può solo farsi un’immagine ideale. Però…

Il primo Django è uscito nel 1966, il secondo nel 2012. Negli anni di uscita del primo, negli USA della guerra in Viet-Nam. Dell’obiezione totale al servizio militare, della contestazione studentesca eccetera, ma proprio in quell’anno due neri un poco incazzati, Huey Newton e Bobby Seale, avevano fondato le Black Panthers, con un punto di vista non solo antirazzista, ma di ispirazione marxista e quindi anticapitalista.

“Two shots in the dark and now Huey’s dead” (2pac). Ad uccidere Huey è stato uno spacciatore, categoria con la quale era finito, al pari di moltissimi neri e non solo, ad avere a che fare e dalla quale dipendere. Ma moltissimi altri neri. Militanti del Black Panthers Party, sono finiti ammazzati dagli stessi poliziotti che ora comanda mister Obama. Come può un regista sperare che un personaggio peggiore del suo Stephen, nero e peggior nemico dei neri nella tenuta degli schiavisti, peggiore in quanto non schiavo prediletto, ma incensato e potente servitore del principale stato imperialista, apprezzi il suo film? Qualcosa non torna, e allora forse l’asino non raglia a torto.

Perché mister Obama, certo dietro volere dei poteri economici, politici e militari di cui è immagine, ha potere di vita e di morte, e lo esercita, su milioni di persone in tutto il mondo. Nel film fa sussultare di rabbia la scena della fustigazione della povera Brunilde, ma in tutto il mondo nemmeno si sa quante sono le carceri segrete in cui mister Obama rinchiude persone solo perché si oppongono direttamente o indirettamente al “suo” dominio. E nessuno sa con precisione a quali trattamenti queste persone vengono sottoposte.

Ma si tratta di un film contro la schiavitù, mica si può cercare il pelo nell’uovo,… inoltre qui la schiavitù non c’è più stata dal Medioevo: già dal 1800 i proletari erano liberi di vendere la loro forza lavoro in cambio di un salario. Quel che facevano poi della loro vita era affar loro. E oggi.. già, oggi?

L’asino dice che oggi non si vende più la forza lavoro, o meglio, non solo quella. Il padrone paga solo quella, ma si appropria in un modo o nell’altro della quasi totalità della vita del lavoratore, e lo fa col suo sistema che si può chiamare a piacere globalizzato, metropolitano, informatizzato, o tutto questo e molto di più. Se è stata l’industrializzazione a scomporre la famiglia allargata tipica delle società agricole nella famiglia monocellulare, il capitalismo in crisi (Engels direbbe “ve l’avevo detto”) scompone questa nella famiglia individuale, non più condivisione di spese, beni e altro, ma “one man one phone” ad esempio (mi ripeto, ma le formule, come insegna la matematica, sono quelle). Per non parlare dell’ìobbligo di mediazione di banche o poste per ricevere l’eventuale stipendio. Questo per dire che praticamente l’intera vita di un proletario appartiene, direttamente o indirettamente, al capitale. Tot ore come venditore di forza lavoro, tot ore come consumatore di merci, tot ore come consumatore/riproduttore di rapporti sociali dettati dal capitale. Apparentemente tutto questo è su base volontaria, ma l’alternativa è l’essere tagliati fuori dalla possibilità di acquisizione dei propri beni di sussistenza (salvo personali supporti assistenziali di qualunque natura o mercati, legali o meno, alternativi fino ad un certo punto), per cui in definitiva, di schiavitù si tratta, anche se in una forma moderna ed edulcorata.

Anche se non c’è niente di edulcorato nell’essere un immigrato che lavora in nero e finisce per essere abbandonato sul ciglio di una strada perché è volato da un ponteggio, o magari perché è meglio eliminarlo che pagargli il lavoro nei campi (Christoph Waltz era protagonista nel film Come l’acqua per gli elefanti, proprietario di un circo che spesso per non pagare gli operai li faceva buttare giù dal treno in corsa). Ci vorrebbe veramente uno come Django per darci una mano. Se non fosse che…

Credere negli eroi, si chiamino Django, Superman o Capitan Mutanda, nel 2013, è come credere a Babbo Natale, o alla profezia dei Maya, che simpatia Zeman vincerà uno scudetto o che mandando il partito giusto in parlamento si risolverà tutto. Soprattutto in tempi di droni, di guerra tecnologica, del sistema satellitare chiamato MUOS che metterà mister Obama in grado di colpire chiunque gli garbi in qualunque parte del pianeta in qualunque momento. Ovvio che ho esagerato con i qualunque, come sul potere personale del mister, ma il fatto resta che lo schiavo che si aspetta un Django per liberarsi delle catene, rischia nel migliore dei casi di dover attendere ben oltre un ipotetico e poco probabile giorno del giudizio; nel peggiore, di cascare dalle mani di Bush in quelle di Obama. Solo un raffinato cultore dell’alta cucina può essere in grado di cogliere la differenza. Nel frattempo…

Nei cinema rionali, quando ero piccolo, andavano per la maggiore, oltre agli italici Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, film di fantafantascienza come Godzilla contro King Kong. Seguendo quanto Tarantino dice sulla propensione del cinema a descrivere la realtà. Mi aspetto un Django contro Terminator.

Ho passato 164 minuti di piacevole intrattenimento nel vedere Django unchained. Il problema è che, quando esco dal cinema, ho l’abitudine di riaccendere, oltre al cellulare, anche il cervello.

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