La politica del linguaggio

10 lug 2012 10:03 pm

La politica del linguaggio

www.resistenze.org – cultura e memoria resistenti – linguaggio e comunicazione – 11-06-12 – n. 413

da http://petras.lahaine.org/?p=1898 

Traduzione dall’inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

 

La politica del linguaggio e la lingua della regressione politica

 

di James Petras

 

18/05/2012

 

Il capitalismo e i suoi sostenitori tengono saldo il dominio attraverso le “risorse materiali” a loro disposizione, in particolare attraverso l’apparato statale, le imprese produttive, finanziarie e commerciali, e certo attraverso la manipolazione della coscienza popolare attuata per mezzo degli ideologi, accademici, giornalisti e pubblicisti che fabbricano le argomentazioni e il linguaggio utile a inquadrare le questioni quotidiane.

 

Oggi le condizioni materiali per la stragrande maggioranza delle persone si stanno fortemente deteriorando, visto che la classe capitalistica scarica tutto il peso della crisi e il recupero dei profitti sulle spalle delle classi salariate e stipendiate. Uno degli aspetti sorprendenti di questo importante arretramento del tenore di vita è l’assenza finora di una significativa sollevazione sociale. Grecia e Spagna, con oltre il 50% di disoccupazione giovanile tra i 16-24 anni di età e quasi il 25% di disoccupazione generale, hanno sperimentato decine di scioperi generali e numerose mobilitazioni partecipate in massa, senza produrre alcun cambiamento reale di regime o di politiche. I dolorosi licenziamenti di massa e i tagli dei salari, delle pensioni e dei servizi sociali continuano. In paesi come Italia, Francia e Inghilterra, le proteste e il malcontento trovano espressione nell’arena elettorale, con la consueta alternanza politica. Eppure, in tutto il fermento sociale e la profonda erosione socio-economica del tenore di vita e di lavoro, l’ideologia dominante che informa i movimenti, i sindacati e l’opposizione politica è riformista: dirama appelli per difendere le prestazioni sociali esistenti, per aumentare la spesa pubblica, per investire e ampliare il ruolo dello stato nelle attività in cui il settore privato ha fallito. In altre parole, la sinistra propone di conservare un passato, di quando il capitalismo era improntato allo stato sociale.

 

Il problema è che questo “capitalismo del passato” è andato e un nuovo capitalismo più violento e intransigente è emerso dando forma a un nuovo quadro mondiale e un potente apparato statale immune a tutti gli inviti alla “riforma” e al ripensamento. Il disorientamento, la frustrazione e lo sviamento dell’opposizione popolare di massa è, in parte, dovuto all’adozione, da parte degli scrittori, giornalisti e accademici di sinistra, dei concetti e del linguaggio usato dagli avversari capitalisti: un linguaggio ideato per offuscare i reali rapporti sociali di brutale sfruttamento, il ruolo centrale delle classi dirigenti nell’affossamento delle conquiste sociali e il legame profondo tra classe capitalista e Stato. I pubblicisti, gli accademici e i giornalisti capitalisti hanno elaborato un rosario di concetti e termini che perpetuano il dominio capitalista e distraggono i critici e le vittime dal mettere a fuoco gli artefici della brusca caduta verso l’impoverimento di massa.

 

Anche quando formulano critiche e denunce, i critici del sistema usano il linguaggio e i concetti degli apologeti del capitalismo. Nella misura in cui il linguaggio del capitalismo è entrato nella lingua corrente della sinistra, la classe capitalista ha stabilito l’egemonia o il dominio sugli avversari di un tempo. Peggio, la sinistra, coniugando alcuni concetti fondamentali del capitalismo con l’aspra critica, generano l’illusione che sia possibile riformare “il mercato” per servire fini popolari. In tal modo si manca di individuare le principali forze sociali da estromettere dalle leve del comando dell’economia e l’imperativo di smantellare la classe dominante. Mentre la sinistra denuncia la crisi del capitalismo e i salvataggi di Stato, la sua povertà di pensiero mina lo sviluppo dell’azione politica di massa. In questo contesto il “linguaggio” diventa una “forza materiale”: un veicolo del potere capitalista, usato principalmente per disorientare e disarmare gli avversari appartenenti alla classe lavoratrice e anticapitalista. Lo fa cooptando i suoi intellettuali attraverso l’uso di termini, attraverso l’uso di un quadro concettuale e un linguaggio che dominano la discussione sulla crisi capitalista.

 

Principali eufemismi al servizio dell’offensiva capitalista

 

Gli eufemismi hanno un doppio significato: quel che connotano e il portato reale. Le concezioni eufemistiche sotto il capitalismo rappresentano una realtà favorevole o un comportamento accettabile e un’attività totalmente dissociata dall’esaltazione della ricchezza e della concentrazione del potere e dei privilegi. Gli eufemismi mascherano l’obiettivo delle élite al potere di imporre specifiche misure di classe e di reprimere senza essere identificati correttamente, né ritenuti responsabili e contrapposti all’azione popolare di massa.

 

L’eufemismo più comune è “mercato”, un termine dotato di caratteristiche e poteri umani. Ci viene detto che è “il mercato a richiedere tagli salariali”, dissociando la “richiesta” dalla classe capitalista. I mercati, lo scambio di merci o la compravendita di beni, sono esistiti per migliaia di anni in diversi sistemi sociali e in contesti altamente differenziati. Possono avere dimensione globale, nazionale, regionale o locale. Coinvolgono una pluralità di attori socio-economici e comprendono unità economiche molto diverse, dalle colossali società per azioni sostenute dallo Stato ai mercati di semi-sussistenza dei villaggi contadini e delle piazze cittadine. I mercati sono esistiti in tutte le società complesse: schiavistica, feudale, mercantile, nelle prime come nelle più recenti società capitaliste operanti in regime di monopolio o di concorrenza.

 

Quando si parla e si analizzano i “mercati” per dare un senso alle transazioni (chi guadagna e chi perde), si devono chiaramente identificare le principali classi sociali che dominano le transazioni economiche. Scrivere in generale sui “mercati” è ingannevole perché i mercati non esistono indipendente dalle relazioni sociali che definiscono ciò che viene prodotto e venduto, come si produce e quali configurazioni di classe modellano il comportamento dei produttori, dei venditori e del lavoro. La realtà attuale del mercato è definita dai colossi bancari e dalle multinazionali che dominano i mercati del lavoro e delle materie prime. Scrivere dei “mercati” come se operassero al di sopra e al di là delle brutali disuguaglianze di classe occulta l’essenza dei rapporti di classe contemporanei.

 

Bisogna arrivare a comprendere che esiste incontrastato, nonostante non trovi spazio nel dibattito contemporaneo, il potere dei proprietari capitalisti dei mezzi di produzione e distribuzione, della proprietà capitalistica della pubblicità, dei banchieri capitalisti che concedono o negano il credito e dei funzionari statali (nominati dai capitalisti) che “regolano” o deregolamentano i rapporti di scambio. I risultati delle loro politiche sono attribuiti a eufemistiche richieste del “mercato” disgiunte dalla brutale realtà. Pertanto, come concludono i propagandisti, andare contro il “mercato” è come opporsi allo scambio dei beni: cosa ovviamente assurda. Al contrario, individuare le pretese del capitalismo sul lavoro, incluse le riduzioni dei salari e della sicurezza sociale, ci pone a confronto con una specifica forma di sfruttamento del comportamento dei mercati in cui i capitalisti cercano di guadagnare maggiori profitti contro gli interessi e il benessere dei lavoratori salariati.

 

Confondendo i rapporti di sfruttamento del mercato sotto il capitalismo con i mercati in generale, gli ideologi ottengono diversi risultati, e innanzitutto nascondono il ruolo fondamentale dei capitalisti evocando un istituto con connotazioni positive, cioè il “mercato” dove le persone acquistano beni di consumo e “socializzano” con amici e conoscenti. In altre parole, quando il “mercato”, che viene dipinto come amico e benefattore della società, impone politiche dolorose, lo fa presumibilmente per il benessere della comunità. Almeno questo ciò che i propagandisti d’affari vogliono far credere al pubblico diffondendo un’immagine virtuosa del “mercato”, mentre mistificano il comportamento predatorio del capitale privato a caccia di sempre maggiori profitti.

 

Uno degli eufemismi più comuni gettato nel mezzo di questa crisi economica è “austerità”, un termine usato per coprire la dura realtà dei tagli draconiani a salari, stipendi, pensioni e al sistema di welfare e il forte aumento delle imposte regressive (IVA). Misure di “austerità” significano politiche per proteggere e persino aumentare i sussidi statali alle imprese, creare maggiori profitti per il capitale e maggiori disparità tra il 10% superiore della società e il restante 90%. “Austerità” implica autodisciplina, semplicità, parsimonia, risparmio, responsabilità, limiti al lusso e alla spesa, evitare la gratificazione immediata per un futuro sicuro: una sorta di calvinismo collettivo. Connota un sacrificio condiviso oggi per il benessere futuro di tutti.

 

Tuttavia, nella pratica “austerità” descrive delle politiche classiste messe a punto dell’élite finanziaria per attuare specifiche riduzioni del tenore di vita e dei servizi sociali (come sanità e istruzione) a disposizione degli operai e impiegati. Significa che i fondi pubblici vengono deviati in misura ancora maggiore per pagare gli alti tassi di interesse ai ricchi azionisti, sottoponendo l’ordine pubblico ai diktat dei padroni del capitale finanziario.

 

Piuttosto che parlare di “austerità”, nella sua connotazione di severa autodisciplina, la sinistra dovrebbe descrivere chiaramente le politiche della classe dominante contro le classi operaie e salariate, che aumentano le disuguaglianze e polarizzano la ricchezza e il potere. Le politiche di “austerità” sono quindi l’espressione di come le classi dirigenti utilizzano lo Stato per spostare il peso dei costi della loro crisi economica sul lavoro.

 

Gli ideologi delle classi dirigenti hanno cooptato e si sono appropriati di concetti e termini che la sinistra utilizzava originariamente per promuovere il miglioramento del tenore di vita. Due di questi eufemismi, presi alla sinistra, sono “riforma” e “aggiustamento strutturale”. Il termine “riforma”, per molti secoli, ha designato il cambiamento che riduceva le disuguaglianze e accresceva la rappresentanza popolare. Le “riforme” hanno rappresentato cambiamenti positivi: l’innalzamento del welfare pubblico e il contrasto all’abuso di potere da parte di regimi oligarchici o plutocratici. Negli ultimi tre decenni, tuttavia, importanti economisti, giornalisti e funzionari bancari internazionali hanno sovvertito il significato di “riforma” nel suo contrario: si fa ora riferimento alla liquidazione dei diritti dei lavoratori, alla fine della regolazione pubblica del capitale e alla riduzione delle sovvenzioni pubbliche che rendono cibo e carburante accessibile per i poveri. Nel vocabolario capitalista di oggi “riforma” significa invertire i cambiamenti progressivi e ripristinare i privilegi dei monopoli privati. La “riforma” implica la fine della sicurezza del lavoro e facili licenziamenti di massa dei lavoratori, abbassando o eliminando ammortizzatori e trattamenti di fine rapporto. “Riforma” non connota più cambiamenti sociali positivi, ma significa ora invertire quei cambiamenti conquistati e la restaurazione di un potere incontrollato del capitale. Ciò comporta un ritorno alla fase precedente e più brutale del capitale, prima che le organizzazioni sindacali esistessero e quando la lotta di classe era repressa. Quindi “riforma” significa ora ripristino dei privilegi, del potere e del profitto per i ricchi.

 

In modo analogo, i linguisti cortigiani della professione economica hanno cooptato il termine “strutturale”, come nella locuzione “aggiustamento strutturale”, per porlo al servizio del potere sfrenato del capitale. Non più tardi del 1970 il cambiamento “strutturale” era riferito alla redistribuzione delle terre dei grandi proprietari terrieri ai senza terra; al trasferimento di parte del potere dei plutocrati alle classi popolari. Il termine “strutture” si riferiva all’organizzazione di un potere privato concentrato nello stato e nell’economia. Oggi, però, “struttura” indica le istituzioni e le politiche pubbliche, emerse dalle lotte operaie e popolari per ottenere la sicurezza sociale, per la tutela della salute, il benessere e previdenza dei lavoratori. “Cambiamenti strutturali” sono adesso l’eufemismo per demolire quelle istituzioni pubbliche, per liquidare i vincoli sul comportamento predatorio del capitale e distruggere la capacità dei lavoratori di negoziare, lottare o preservare le conquiste sociali.

 

Il termine ” aggiustamento”, come “aggiustamento strutturale”, è esso stesso un eufemismo accattivante, per indicare l’attenta modulazione dell’intervento di istituzioni e politiche pubbliche nel campo della salute e del bilancio. Ma, in realtà, “aggiustamento strutturale” rappresenta un attacco frontale al settore pubblico e il completo smantellamento della legislazione e degli enti pubblici posti a tutela del lavoro, dell’ambiente e dei consumatori. L’”aggiustamento strutturale” maschera un assalto sistematico al tenore di vita del popolo a beneficio della classe capitalista.

 

La classe capitalista ha coltivato una leva di economisti e giornalisti che spacciano le politiche draconiane con un linguaggio dolce, sfuggente e ingannevole al fine di neutralizzare l’opposizione popolare. Purtroppo, molti dei loro critici di “sinistra” tendono a fare affidamento sulla stessa terminologia.

 

Data la diffusa corruzione del linguaggio così pervasiva nelle discussioni attuali sulla crisi del capitalismo, la sinistra dovrebbe smettere di utilizzare questa serie di eufemismi ingannevoli assunti dalla classe dominante. E’ frustrante constatare con quanta facilità i seguenti termini entrano nel nostro discorso:

 

Disciplina di mercato – L’eufemismo “disciplina” indica serietà, coscienza e forza di carattere nell’affrontare le avversità. Si contrappone al comportamento irresponsabile e sfuggente. In realtà la “disciplina di mercato”, descrive come i capitalisti traggano vantaggio dalla presenza dei disoccupati e usino la loro influenza politica e il potere di licenziare in massa i lavoratori per intimidire i dipendenti rimasti e imporgli un maggiore sfruttamento e superlavoro, ottenendo in tal modo maggiori profitti per meno salario. Questa locuzione nasconde anche la capacità dei signori capitalisti di aumentare il loro tasso di profitto tagliando i costi sociali di produzione, quali le tutele dei lavoratori e dell’ambiente, la copertura sanitaria e le pensioni.

 

Shock di mercato – Si riferisce all’impegno dei capitalisti nell’attuare brutali, massicci e repentini licenziamenti, tagli salariali e riduzione dei piani sanitari e pensionistici al fine di migliorare le quotazioni di borsa, aumentando profitti e guadagni per i padroni. Abbinando un termine neutro come “mercato” a “shock”, gli apologeti del capitale mascherano l’identità dei responsabili di queste misure, le loro conseguenze terribili e gli immensi benefici di cui godono le elite.

 

Richieste del mercato – Questa frase eufemistica è designata ad antropomorfizzare una categoria economica, per stornare la critica dai detentori del potere in carne e ossa, dai loro interessi di classe e dal loro dispotico potere sul lavoro. Invece di “richieste del mercato”, la frase va letta: la classe capitalista impone ai lavoratori di sacrificare i loro salari e la propria salute per garantire maggiori profitti alle multinazionali”: un concetto chiaro, più capace di suscitare le ire di coloro che vengono colpiti.

 

Libera impresa – Un eufemismo che mescola insieme due concetti: l’impresa privata per il profitto privato e la libera concorrenza. Eliminando l’immagine sottesa del guadagno privato di pochi contro gli interessi di molti, gli apologeti del capitale hanno inventato un concetto che enfatizza le virtù individuali di “impresa” e “libertà” in contrasto con i vizi economici reali di avidità e di sfruttamento.

 

Libero mercato – Un eufemismo che implica la concorrenza libera, equa e leale in mercati non regolamentati sorvolando la realtà del dominio del mercato da parte di monopoli e oligopoli, dipendenti in tempi di crisi capitalista da massicci salvataggi statali. “Libero” si riferisce specificamente all’assenza di regolazione pubblica e intervento dello Stato per difendere la sicurezza dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente. In altre parole, il termine “libertà” occulta la distruzione immotivata di un ordine civile a causa dell’esercizio sfrenato del potere economico e politico da parte dei capitalisti privati. Il “libero mercato” è l’eufemismo per il dominio assoluto dei capitalisti sui diritti e il sostentamento di milioni di cittadini, in sostanza una vera negazione della libertà.

 

Ripresa economica – Questa locuzione indica il recupero dei profitti da parte delle grandi aziende, mentre nasconde la totale assenza di recupero degli standard di vita per le classi lavoratrici e medie, nonché l’inversione delle prestazioni sociali e le perdite economiche dei titolari di mutui, dei debitori, dei disoccupati di lunga durata e la bancarotta delle piccole imprese. La “ripresa economica” maschera come l’immiserimento di massa costituisca una condizione fondamentale per il recupero dei profitti d’impresa.

 

Privatizzazione – Questo termine descrive il trasferimento delle imprese pubbliche, di solito quelle redditizie, a grandi e ben introdotti capitalisti privati, a prezzi nettamente inferiori al loro valore reale. La “privatizzazione” implica la perdita dei servizi pubblici, del pubblico impiego stabile e costi più elevati per i consumatori poiché i nuovi proprietari privati speculano sui prezzi e sui tagli del personale, tutto in nome di un altro eufemismo: “efficienza”.

 

Efficienza – Per efficienza qui si intende solo quella dei bilanci di impresa, ma non riflette i pesanti costi di “privatizzazione” a carico del resto dell’economia. Ad esempio, la “privatizzazione” del trasporto aggiunge costi per le imprese a monte e a valle, rendendole meno competitive rispetto alle concorrenti in altri paesi; “privatizzazione” elimina servizi nelle regioni meno redditizie, portando al collasso economico e all’isolamento dai mercati nazionali. Spesso, i funzionari pubblici, che sono allineati con i capitalisti privati, deliberatamente disinvestono nelle imprese pubbliche e nominano incompetenti tra i dirigenti di nomina politica, in modo da degradare i servizi e fomentare il malcontento pubblico. Questo crea un’opinione pubblica favorevole alla “privatizzazione” di impresa. In altre parole la “privatizzazione” non è il risultato delle inefficienze intrinseche delle imprese pubbliche, come gli ideologi del capitalismo amano asserire, ma un deliberato atto politico volto a innalzare il vantaggio del capitale privato a detrimento del benessere pubblico.

 

Conclusione

 

Il linguaggio, i concetti e gli eufemismi sono armi importanti nella lotta di classe “dall’alto”, designati dai giornalisti e dagli economisti capitalisti per massimizzare la ricchezza e il potere del capitale. Nella misura in cui i critici progressisti e di sinistra adottano tali eufemismi e il relativo quadro di riferimento, le loro critiche e le loro proposte sono limitate dalla retorica del capitale. Mettere “virgolette” attorno agli eufemismi può essere un segno di disapprovazione, ma questo non basta per promuovere un diverso quadro analitico necessario per il successo della lotta di classe “dal basso”, né pone la necessità di una rottura con il sistema capitalista, compreso il suo linguaggio corrotto e i suoi concetti ingannevoli. I capitalisti hanno rovesciato le conquiste fondamentali della classe operaia e stiamo precipitando verso il dominio incontrastato del capitale. Questo deve sollevare nuovamente la questione di una trasformazione socialista dello Stato, dell’economia e della struttura di classe. Una parte integrante di tale processo deve essere il rifiuto completo degli eufemismi usati dagli ideologi del capitalismo con la sostituzione sistematica di termini e concetti che veramente riflettono la dura realtà, che chiaramente individuano gli autori di questo declino e che definiscano gli attori sociali per la trasformazione politica.

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