Dalla forza-lavoro alla forza sociale

 

Dalla forza-lavoro alla forza sociale

Tempo di crisi. Ce lo sentiamo ripetere ogni giorno, in ogni ambito comunicativo, dai media alle conversazioni per strada o sul posto di lavoro. Ed in effetti, se facciamo un paragone con gli anni del consumismo sfrenato, dal cosiddetto boom economico, con fasi alterne, fino all’inizio di quello che convenzionalmente definiamo terzo millennio, qualche differenza si può notare. Inutile ripetere i dati sulla perdita del potere d’acquisto del salario, o stipendio che sia. Sulla perdita di diritti da parte delle classi lavoratrici. Questi dati sono sotto gli occhi di tutti. Meno evidenti però sono le falsità di altre frasi comunemente passate come realtà indiscutibile, conseguente al concetto di crisi. Ad esempio quella per cui “non c’è lavoro”.

Certo è che se con il termine ‘lavoro’ si intende qualcosa che possa produrre profitti e guadagni a chi lo amministra, ci si può anche credere, nel senso che la ruberia del lavoro sociale, ed il sovraffollamento del pianeta con merci non sempre utili, anzi, spesso inutili e dannose, che fra l’altro trovano sempre meno gente in grado di acquistarle, riescono sempre meno a fornire appunto quei profitti e quei guadagni alla classe dei padroni. In questo senso, sarebbe più corretto dire “non c’è lavoro che ci ingrassi quanto vorremmo”.

Ma se parlando di lavoro ci si vuole riferire all’attività umana necessaria alla riproduzione della vita, dell’esistenza, e quindi dei mezzi e delle condizioni necessarie affinché questa riproduzione e questa esistenza possano proseguire, il discorso cambia, e di molto. Perché non ci vuole certo un quoziente intellettivo extraterrestre per vedere quante cose ci sarebbero da fare, e che sarebbe facilmente possibile fare, per rendere la vita migliore alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Inutile prodursi in elenchi.

E allora, cos’è questa crisi, se non l’inceppamento del meccanismo produttivo, mercantile e di conseguenza politico di questo tipo di sistema basato sul profitto estorto al lavoro, cioè ai lavoratori? Lavoratori che nelle analisi di economia politica risultano come forza-lavoro, soprattutto nei settori produttivi. Non esseri umani, non individualità, non componenti della formazione sociale, ma categoria economica, forza-lavoro che si rappresenta con dei numeri, cifre di costo e di rendita, nel bilancio dell’economia capitalistica. Economia che quindi, non vedendo essi in quanto individui, ma in quanto ‘macchine umane’ destinate alla produzione e riproduzione di un sistema economico prima ancora che politico, studia il loro futuro esattamente in questa funzione, cercando sempre più di eliminare il fattore umano per esaltare il fattore macchina produttiva.

I livelli di sviluppo raggiunti dalla scienza e dalla tecnologia, data soprattutto la vertiginosa accelerazione che hanno visto negli ultimi decenni, potrebbero portare facilmente e velocemente ad una sostituzione del fattore uomo nella produzione soprattutto, ma anche in altri settori. Marx ha ben spiegato perché ciò non succeda, ben prima che questa impennata tecnologica fosse anche solo immaginabile. Il plusvalore, che è la fonte dei profitti dei capitalisti, può provenire solo da lavoro non retribuito a quella che chiamano forza-lavoro. Ridurla per produrre di più e più velocemente è esigenza della concorrenza sul mercato. Eliminarla del tutto significa eliminare del tutto plusvalore e quindi profitto derivato dalla produzione. Lasciamo da parte il discorso sulle speculazioni finanziarie, che sono legate al discorso, ma in altro ambito.

Il punto allora è quello di trovare il sistema che permetta di spremere sempre più plusvalore da sempre meno forza-lavoro, e questo può essere fatto riducendo in essa il fattore umano, ed assimilandola sempre più al fattore macchina. Dal taylorismo al fordismo al toyotismo, dal TMC-TMC2, OCRA, ERGO-UAS, sono stati escogitati tantissimi sistemi scientificamente studiati per far sì che l’operaio renda il massimo possibile nel minor tempo possibile. Tutti quelli citati sono sistemi basati sullo studio di quanti e quali movimenti possa compiere l’operaio in una data quantità di secondi, ovvero, vista dall’altro lato della questione, valutare quanti movimenti è possibile far effettuare al corpo umano nel minor lasso di tempo possibile, per aumentarne il grado di produttività. Su questo tema è molto istruttivo il video TMC2 prodotto dagli operai della Piaggio in Toscana, che evidenzia il funzionamento di questo particolare sistema, ma in generale il senso di tutti i suoi simili e successori, e gli effetti per la classe lavoratrice. O sei in grado di rispettare quel tipo di tabelle, o sei fuori, licenziato, come camperai sono affari tuoi. Tutto questo discorso ci porta a fare una riflessione sul concetto di forza-lavoro e prima ancora di lavoro.

La repubblica basata sul lavoro

In questo decennio soprattutto è frequente, anzi, costante, sentire persone che espongono i loro argomenti appellandosi alla Costituzione o alla modifica della medesima. Non è lei punto importante di questo discorso. Ma al suo articolo uno, la costituzione dello stato italiano recita che essa è fondata sul lavoro. Ovvero, che il suo pilastro fondamentale è il lavoro. Molti, indignati, vedendo ignorate le esigenze ed i bisogni del lavoratori, urlano al tradimento, esigono un ritorno al rispetto dell’articolo. Altri molto semplicemente, per interessi opposti, continuano ad applicarlo, perché in effetti non solo la repubblica italiana, ma l’intero sistema capitalista è fondato, a partire da un capitale base, sul lavoro, quello che da valore alle merci prodotte e che tramite il plusvalore aumenta la massa del capitale accumulato.

Si tratta di un falso equivoco, in realtà di uno degli argomenti principali usati dal capitale per tenere sottomessa la classe lavoratrice. Confondendo il lavoro, in quanto attività necessaria a procurare alla società di che riprodursi e migliorare le proprie condizioni di vita, con quello retribuito in cambio della vendita di forza-lavoro, grazie anche alla talpa riformista (il mito di Stachanov, dei sacrifici in nome del paese, eccetera) i padroni hanno gioco abbastanza facile nel convincere l’operaio del fatto che lavoro sia semplicemente quello che gli da un salario, o stipendio che sia. E che questo coincida col lavoro necessario alla sopravvivenza della comunità.

Equivoco che spalanca le porte alle sempre maggiori pretese del capitale nei confronti di quella che considera solo come forza-lavoro. Nel senso ad esempio, che quando si parla di costo del lavoro, questo ignobile freno allo sviluppo, non si intende certo il costo della lavorazione nel suo complesso, ovvero dei macchinari, delle materie prime, degli stabilimenti, dato che il costo di questi è affare di altri capitalisti. Ma piuttosto il costo della forza-lavoro. Che si vada a toccare il salario diretto o quello indiretto (assistenza sanitaria, trasporti, eccetera), sempre quello è il loro problema, togliere quanto più possibile dalla parte di chi produce il valore delle merci, di chi garantisce l’accrescimento del capitale.

Passati questi punti, passa anche il concetto per cui si vive per lavorare, perché la società lo richiede. Uomini e donne ridotti a formiche operaie per il profitto di pochi padroni-regine. L’appartenenza allo stesso regno animale viene così messa in discussione, anzi, contestata ed eliminata come retrograda. Non più lavorare per vivere, ma vivere per lavorare. Includendo in questo il salto dato nella fase del capitalismo dominante a livello planetario e nella fase di crisi, per cui oltre al lavoro retribuito come produttore di beni o servizi, al lavoratore tocca anche quello a pagamento come consumatore, perché a lui viene anche caricato il compito di smaltire le merci e quindi realizzare il plusvalore prodotto.

Detto questo, tutto il lato animale, o se vogliamo distinguerci per forza, umano, della vita, diventa una zavorra inutile. La parte emotiva, filosofica, sociale, creativa, e chi più ne ha più ne metta, diventa un peso inutile, o perlomeno qualcosa di cui non preoccuparsi. L’importante è sviluppare le forze produttive della società, nella maniera e nella misura richieste però da QUESTO tipo di formazione sociale economica, il capitalismo.

Ma se la vita è finalizzata al lavoro, e se i vari sistemi suddetti di ottimizzazione dello sfruttamento del lavoro umano, trovano il loro ostacolo naturale nella struttura fisica umana, eliminate le ‘sovrastrutture’ ideologico culturali, perché non intervenire proprio su questa, la struttura fisica, i limiti corporei della forza-lavoro?

Il corpo tecnologico

Lo sviluppo tecnologico, trasformando le forze produttive, influisce negativamente sul tasso del profitto. Il rimedio consiste nell’aumentare il grado di sfruttamento della forza-lavoro. In certi posti, a certe condizioni, si impongono così giornate lavorative anche di 70 ore. In altri invece, quelli cosiddetti evoluti e democratici (che ad ogni modo sono quelli che commissionano ai paesi precedenti lavorazioni che comportano quel tipo di sfruttamento), si applicano metodi scientificamente elaborati per spremere fino al limite estremo la capacità fisica e tecnica del corpo.

A questo punto, rendendosi poco praticabile per varie ragioni l’estensione anche qui della giornata lavorativa, perlomeno oltre certi livelli, il limite, la barriera che si frappone all’innalzamento del grado di sfruttamento, è proprio il corpo umano, con le sue limitazioni anatomiche, energetiche, psicologiche, eccetera.

Quindi, viene ritenuto necessario modificare il corpo umano, non più solo l’apprendimento dell’individuo, ma esattamente le sue possibilità fisiche e tecniche, e gli sviluppi raggiunti dalla ricerca scientifica e tecnologica consentono, se non ancora di praticare, quantomeno di immaginare, progettare e perseguire questa strada.

Molti i guru del progresso cyber, “Nella comunicazione telematica ad esempio cambia la percezione del tempo e dello spazio, un aspetto determinante per comprendere il senso di navigazione nelle reti, di cui il fenomeno del “net-surfing” è solo l’aspetto più vistoso. Esperienze di nuova natura percettiva che espanderanno non solo le coscienze ma il mercato del futuro: quello dell’informazione e della conoscenza. “. Ma non solo.

Per non dilungare troppo il discorso sulle smanie tecno produttive, si rimanda alla lettura del libro “Il corpo tecnologico” a cura di Pier Luigi Capucci, o più in breve dell’articolo “Corpo e mutazione” di Carlo Infante, pubblicato su L’Unità del 21 dicembre 1995 , da cui è tratta la citazione precedente..

Risulta abbastanza evidente il fatto che questa concezione del progresso, soprattutto quello tecnologico, ma non solo, parli una sola lingua, quella cioè che vede l’essere umano in funzione dell’avanzamento della tecnologia e della sua applicazione, non tanto allo scopo di risolvere i problemi attuali dell’umanità, ma piuttosto per far avanzare la capacità esplorativa, lavorativa e produttiva dell’essere umano. Pensate ad un complesso produttivo di automobili consistente in macchinari avanzatissimi controllati da esseri umani con tre arti ed una gestione cibernetica dell’intero organismo, giusto per cominciare, per poi andare fino ad esseri androidi, cervelli trapiantati su strutture robotiche, emozioni zero, bisogni al limite minimo possibile, mentalità rivolta al massimo obiettivo produttivo (quella indotta oggi dalla logica dei sacrifici sarà una favola legata all’antichità).

Non si sta parlando di fatalità, di deliri fantascientifici o di chissà cosa. Il concetto capitalista di forze produttive è questo, e a questo mira. Fino a pochi anni fa anche la clonazione o l’ingegneria genetica venivano considerati divertenti elementi da fantascienza. Il problema è un altro. E cioè il fatto che questo tipo di futuro sia difficilmente evitabile se non si rovesciano i concetti, se non si inverte il senso di marcia logico.

Forze produttive e sviluppo

Ma è davvero così vitale questo per la sopravvivenza della specie umana? Decisamente no, perché in ben altri campi sarebbero necessari sviluppi evolutivi, e soprattutto indirizzi diversi. Parlando di forze produttive, è evidente come alcune non siano affatto inevitabili e neutre tappe nell’evoluzione dell’umanità. Ad esempio, la fabbrica. Sono invece particolari sistemi di produzione finalizzati al massimo dello sfruttamento col minimo dei costi.

Allo stesso modo un corpo umano con tre arti superiori, o una mente umana trasferita all’interno di una macchina semovente su ruote mobili, può essere concepito solo per finalità produttive dello stesso tipo, cioè per una formazione sociale economica di tipo capitalistico, allo sviluppo estremo, posto che le sue contraddizioni interne gli permettano di arrivare a quel livello. Che vuol comunque dire riproduzione del capitale, andando contro il concetto stesso di essere umano, che in questo modo finirebbe con l’essere definitivamente ed esclusivamente forza-lavoro, non più appunto essere umano.

Se l’automazione totale del ciclo produttivo, come spiega Marx, è inconcepibile per il capitalismo, al contrario, l’automazione dell’uomo, la sua riduzione a macchina pensante ma non senziente (il mito dell’Intelligenza Artificiale) priva di variabili imprevedibili (sensazioni, emozioni, reazioni, elaborazioni, possibilità creativa di uscire dagli schemi dati) è un po’ come trovare l’elisir di lunga vita.

Ovvio che le contraddizioni interne allo stesso sistema economico capitalista rimarrebbero, ma la possibilità di ridurre al lumicino anche solo la probabilità della deflagrazione della contraddizione principale, quella fra capitale e lavoro, potrebbe prolungare i sonni tranquilli dei capitalisti.

Al contrario, la vita dei proletari, soprattutto quelli sottoposti al ciclo produttivo/riproduttivo del capitale, diventerebbe un inferno degno di Clive Barker.

Generalmente si tende ad identificare la persona in base all’attività che svolge per sopravvivere. Il tecnico, l’idraulico, l’operaio, il ladro, il politico, eccetera. Questo perché il capitalismo ha bisogno di ottimizzare la società in funzione delle sue esigenze produttive/riproduttive. Non credo che esistano molte persone che considerino se stessi in termini di forza-lavoro, ma di fatto in questi termini viviamo, nel senso che ormai ciò che determina i nostri livelli, modi e la qualità di vita, è la nostra collocazione all’interno del sistema economico del capitalismo. Perché per esso questo siamo, forza-lavoro, ed in quanto tale, soggetti a sperimentazioni e deformazioni continue. Chi si adatta vive, male ma vive, chi non si adatta muore.

Sono in pochi a farlo, anche in campo marxista, ma si sta cominciando a vedere che se si vuole riportare l’esistenza in funzione dell’esistenza del genere umano e del mondo in cui vive, e non del sistema economico politico che arricchisce pochi a danno degli altri e dell’ambiente di vita, è necessario non solo pensare ad uno sviluppo delle forze produttive finalizzato al benessere reale, non mercantile e consumistico, ma anche ad una soppressione del concetto di forza-lavoro, inteso in quanto riduzione dell’essere umano, dell’operaio, ad una cifra del bilancio aziendale, a favore del concetto di forza sociale, ovvero la capacità di una formazione sociale di creare e produrre le condizioni per la propria sopravvivenza e riproduzione in scambio equo con tutte le altre formazioni sociali.

Proviamo ad immaginare quale sarebbe la capacità della cosiddetta forza-lavoro odierna, incluso quella che per esigenze di profitto viene lasciata fuori dal processo lavorativo, applicata non alle leggi di mercato ma ai bisogni della collettività umana. Soprattutto se gli sviluppi tecnologici fossero rivolti appunto a questi bisogni, e non ad esigenze militari, imprenditoriali eccetera.

È importante che incominciamo a vedere noi stessi non più in quanto forza-lavoro, ma piuttosto in quanto forza sociale, conoscenza e capacità lavorativa ed intelligente in funzione della sopravvivenza nostra, e non di un sistema genocida e necrofilo. La scelta è fra il diventare il nostro futuro o il terminator di noi stessi.

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