Stato israeliano e lavoro

Israele e lavoro: pochi diritti e tanta discriminazione
Martedì 05 Agosto 2014 16:41
Luca Lampugnani
tratto da http://www.communianet.org
Pubblichiamo un articolo di un paio di mesi ma tratto da “International Business Times” che ci sembra possa servire ad una maggiore comprensione delle modifcazioni all’interno della società israeiiana e dei rapporti di questa con i palestinesi e i lavoratori immigrati da altri paesi
Se con il socialismo israeliano i privilegi dei lavoratori sionisti si basavano sulle discriminazioni verso i palestinesi, il libero mercato ‘odierno’ ha parzialmente eliminato le differenze tra boia e vittime, restituendo un mondo del lavoro instabile, privatizzato e precario per (quasi) tutti. Insomma, Tel Aviv è passata “da sistema di welfare a economia liberista”, trasformazione che nel giro di qualche decennio ha portato alla creazione “di una forza lavoro politicamente debole e una struttura economica fondata su profonde differenze tra ricchi e poveri”.
Infatti, l’immagine stessa di un'”Israele socialista, frutto delle politiche degli anni 60 e 70, si è eclissata”, racconta il coordinatore nazionale del sindacato indipendente Wac Ma’an, Assaf Adiv. “In passato il sistema egualitario di welfare si era sviluppato a spese della popolazione palestinese – continua -, come elemento fondante del progetto sionista: un’economia fondata sull’uguaglianza sociale ed economica dei cittadini ebrei e sulle discriminazioni verso le comunità arabe. Oggi anche questo non c’è più: attraverso la liberalizzazione selvaggia, i vertici politici israeliani hanno dato vita a uno Stato basato sulle disuguaglianze anche tra i cittadini privilegiati, ovvero gli ebrei”.
L’inizio della fine coincide con il 1985. Allora, spiega ancora Adiv, “il governo lanciò un programma di stabilizzazione a causa dell’iper-inflazione”, cambiando decisamente passo e puntando ad un sistema di libero mercato. In questo modo “lo Stato si liberò dalla responsabilità della tutela del lavoro e dei lavoratori. Creare occupazione non era più una priorità del governo. Al contrario, la priorità divenne quella di attrarre investimenti interni e internazionali”. Ciò ha portato il sistema israeliano ad una “radicale liberalizzazione”, ad una privatizzazione senza regole che ha spogliato i lavoratori di ogni diritto – fu la fine dei contratti collettivi, di un sistema pensionistico stabile e pubblico e dell’alto grado di sicurezza sul posto di lavoro -, lasciati inoltre nell’oblio da un’erosione continua e sistematica della partecipazione sindacale, passata in pochi anni dall’85% al 30%. Ripida discesa che ha riguardato principalmente Histadrut, sindacato e “costola del partito Laburista” che durante gli anni di piena attività aveva come obiettivo quello di “creare un mercato del lavoro arab-free” – fino al 2011 ha impedito il tesseramento a impiegati e lavoratori palestinesi o comunque stranieri o immigrati -, afferma Yonathan Balaban del sindacato indipendente Koach LaOvdim. Fino agli anni 80, continua, Histadrut “aveva il monopolio assoluto del sistema sindacale e operava come una dittatura: il segretario generale e i vertici erano nominati dal partito Laburista, all’epoca al governo, per cui era strettamente dipendente dalle scelte politiche ed economiche dell’esecutivo”. Proprio in questa cornice si è invece sviluppata la formazione e la crescita, dal 2000 ad oggi, di una serie di sindacati indipendenti, il cui obiettivo è quello di tornare ad una tutela piena dei diritti dei lavoratori israeliani, guardando oltre ogni sorta di differenza e, quindi, discriminazione. “Negli ultimi 5 anni abbiamo rafforzato la nostra presenza in molte fabbriche, nelle scuole e nel settore sanitario”, racconta Adiv del già citato Wac Ma’an, formazione che conta attualmente qualche migliaio di lavoratori, ebrei e arabi.
Com’è possibile allora, alla luce di tutto ciò, che ad esempio il settore edilizio abbia avuto, durante gli anni della crisi economica scoppiata nel 2008, una crescita considerevole (+55%)?Secondo quanto sostiene Adiv, “il terreno di coltura del boom edilizio è quello della quasi totale cancellazione dei diritti del lavoro. I sindacati hanno perso il controllo delle aziende e i diritti fondamentali sono evaporati a causa della creazione di un sistema di subappalti, nel quale aziende molto piccole si spartiscono il lavoro e assumono direttamente i lavoratori, riconoscendo loro una porzione minima dei diritti dovuti. I prezzi si sono così abbassati, grazie a una riduzione dei costi che ha pesato quasi esclusivamente sulle spalle dei lavoratori”. Insomma, riassumendo, il boom del settore dipende ed è dipeso in larghissima parte dal far west che è diventato per quanto riguarda diritti e privilegi ai lavoratori.
Situazione, questa, che ha inevitabilmente allargato a dismisura il gap tra ricchezza e povertà, dando una serie di problematiche societarie non indifferenti.
Infatti, nonostante il sistema introdotto a metà degli anni ’80 abbia pressoché danneggiato tutti – senza particolari differenze tra lavoratori arabi, stranieri o ebrei – persistono senza segni di cedimento le discriminazioni etniche e di genere. Una discriminazione diffusa, particolarmente radicata soprattutto nella vita di tutti i giorni, nonostante la legge non preveda, nero su bianco, alcun tipo di distinguo – etnico o religioso – per quanto riguarda i diritti del lavoro. Nella realtà, però, gli israeliani palestinesi percepiscono generalmente uno stipendio che può essere inferiore anche del40% rispetto a quello di un dipendente sionista – inoltre le differenze si vedono anche tra le comunità, finanziate e sviluppate quelle ebraiche e lasciate al declino quelle palestinesi -, mentre gli è assolutamente precluso l’accesso a determinati settori (soprattutto di comando e manageriali) del mondo del lavoro. Come spiega ancora Adiv, infatti, molti datori “non assumono lavoratori palestinesi per ‘ragioni di sicurezza’: non ne troverete nei porti, negli aeroporti, nelle industrie elettriche né in quelle militari. Non ci sono palestinesi manager di aziende pubbliche né di quelle private. Sono pochissimi coloro che riescono a diventare liberi professionisti, e solo il 5 per cento dei dipendenti pubblici è palestinese. Unica eccezione è il settore sanitario: sono moltissimi i palestinesi medici e infermieri all’interno degli ospedali perché il sistema sanitario nazionale è molto avanzato e c’è una grande necessità di professionisti”.
Ma le differenze non si fermano certo solo ai palestinesi, con forti discriminazioni anche rispetto alle donne e agli immigrati. Per quanto riguarda le prime, il tasso di occupazione tra le lavoratrici ebraiche e del 55% mentre quelle di origine araba devono accontentarsi di un bassissimo 25%, e solo il 5% delle donne è attualmente a capo di un’azienda, sia essa pubblica o privata. Spesso, inoltre, sono relegate a settori del lavoro considerati strettamente femminili, dall’insegnante all’infermiera, percependo un salario che, a parità di impiego, è inferiore fino al 33% rispetto a quello di un uomo.
Ancora più estrema è invece la situazione degli immigrati. Stando a quanto racconta Balaban, questi ultimi – arrivati durante la Seconda Intifada del 2000, quando Tel Aviv aprì le porte a cittadini dell’Asia dell’Est e dell’Africa – sono costretti a lavorare nella maggior parte dei casi in assoluta mancanza di diritti, spesso violati dai datori di lavoro. I lavoratori stranieri “arrivano a lavorare anche 16-17 ore al giorno e in cambio ottengono il salario minimo, circa 500 euro”, sostiene il membro del Koach LaOvdim. “Spesso – continua – il datore di lavoro trattiene il loro passaporto per impedirgli di muovere vertenze o di lasciare il lavoro per un impiego migliore. Vivono in appartamenti piccoli, sovraffollati, alle periferie delle principali città israeliane, e hanno il costante timore di essere espulsi: chi perde il lavoro, perde immediatamente il permesso di soggiorno. E chi arriva legalmente, con un regolare contratto di lavoro, finisce dopo qualche anno per restare nel paese da clandestino perché privato del permesso di soggiorno”.
Insomma, in estrema sintesi, “il socialismo israeliano, osannato negli anni ’60 e ’70 in Europa, non esiste più”, come scrive Emma Mancini. Il liberismo estremo, con cui è stato sostituito dall’85, ha portato invece ad una continua ed inarrestabile perdita dei diritti per tutti i lavoratori, al di la delle discriminazioni etniche o di genere. Inoltre, come se non bastasse, Israele si ritrova oggi ad essere sul gradino più alto del podio dei Paesi industrializzati con il più alto tasso di povertà, fissato su una media dell’11% al 21.
24 luglio 2014

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