La guerra addosso

La guerra addosso

 

Il termine guerra, al di là degli ambiti del gioco, porta a pensare a scenari di devastazione, bombardamenti, combattimenti e conseguenze. Lo studio della storia, che significativamente viene di questi tempi ridotto nell’istruzione pubblica, è molto spesso sovraffollato di narrazioni di battaglie, conquiste, massacri diffusi, troppo spesso proposti senza il supporto del contesto, delle motivazioni, e delle conseguenze, si tratti di guerre dell’antichità, o delle due riconosciute guerre mondiali. Per la stragrande maggioranza degli abitanti attuali del cosiddetto mondo occidentale, o impropriamente, del Nord, è un termine che ha a che fare con racconti di generazioni precedenti, o di paesi distanti, nello spazio e nella realtà quotidiana.

Nella definizione ufficiale, oltre che nell’immaginario comune, una guerra significa due o più stati che si affrontano per il controllo di questo o quel territorio, di questo o quel confine, di questa o quella risorsa. Nella definizione marxista classica, si tratta di capitali che si affrontano per più di un motivo: in primo luogo, certo, c’è il bisogno di strappare ai concorrenti risorse di materie prime, mercati, e basi di produzione a prezzi convenienti; in secondo luogo, posizionamenti sullo scacchiere militare; in terzo luogo, ma non certo con importanza minore rispetto ai precedenti, la distruzione di capitali e merci da poter rimpiazzare per far proseguire l’accumulazione. Nel campo delle merci, la distruzione va nel senso della necessità della nuova produzione. Un missile sparato, va rimpiazzato, e quindi prodotto e venduto. Una città rasa al suolo va ricostruita, molto spesso a vantaggio di chi l’ha distrutta. Ma esiste anche un’altra merce, che soprattutto in questi tempi di crisi strutturale del capitalismo, è necessario distruggere: la forza-lavoro in eccesso, ovvero qualunque lavoratore o lavoratrice, impiegati o meno, dato l’altissimo livello di forza-lavoro non occupata che spinge per l’accesso ai mezzi di sussistenza. E fin qui rimaniamo nell’ambito del concetto di guerra che, con un non faticoso aggiornamento, può comunque rientrare negli schemi conosciuti.

Bisogna però fare caso ad un fatto non trascurabile, che è la percezione della guerra, delle sue dimensioni, del suo significato e delle sue implicazioni. La storia ufficiale ci parla di due guerre mondiali. Certe correnti di opinione ci dicono che stiamo andando verso la terza, mentre altre ci spiegano, non senza evidenti ragioni, che la terza già c’è stata, sotto forma di scontro fra il blocco NATO e quello dell’est Europa con annessi e connessi (Vietnam, Cambogia, Nicaragua, Angola, Mozambico, ecc…); se si guarda attentamente alla realtà attuale, si può allora dire che stiamo vivendo di fatto nella quarta guerra mondiale, perché Oceania a parte, non c’è un solo continente che non sia coinvolto in scenari di guerra, che venga riconosciuta ufficialmente o meno. Scenario certo inquietante, soprattutto se pensiamo alle potenzialità degli armamenti in circolazione.

A questo punto, sarebbe cosa normale girare per strada, andare al lavoro, svolgere le quotidiane attività, scambiandosi preoccupazioni sulla situazione con chiunque si incontri e frequenti. Ma così non è, salvo casi in minoranza. Paranoia degli uni o insensibilità degli altri?

Non è certo da paranoici vedere le quantità e le dimensioni dei conflitti in atto sul pianeta e pensare alle conseguenze nonché alla inevitabilità dell’espansione di questi conflitti. Perché, sulla base della definizione marxista, dato lo stato di crisi di struttura del capitalismo, che vuol dire un punto in cui i profitti non possono continuare ad aumentare a meno di una distruzione generalizzata, e probabilmente nemmeno a conseguenza di questa, il gioco di scontri su teatri periferici delle varie potenze non può certo risolvere i problemi né dell’uno né dei tutti, e di conseguenza, ciascuno può farsi la propria immagine del punto di rottura, a seconda del regista cinematografico preferito. Ma il punto immediato non è questo, quanto il fatto che un altro livello, un’altra dimensione di guerra ci viva addosso.

Come prima constatazione, dobbiamo prendere coscienza del fatto che, non solo non volendo, ma subendolo, siamo causa delle guerre che vengono scatenate contro/nei paesi sottoposti al nuovo colonialismo. Lo siamo nella misura in cui rappresentiamo il fattore principale di realizzazione dei profitti capitalistici estorti al lavoro, nostro, in certa misura, ma soprattutto dei paesi ‘meno sviluppati’. Qui viene venduta la grande massa delle merci sfornate in sovrabbondanza, qui si realizza in pieno la schiavitù H24, parte del giorno produttore se non di plusvalore quantomeno di profitto, parte del giorno, la maggior parte, consumatore attivo, che vuol dire che quello che ti pago per la prima parte del giorno me lo restituisci con gli interessi nelle altre parti. Ma bastasse questo, sarebbe solo che da darsi dei cretini. Il fatto è che tutti giriamo con uno smartphone o comunque un cellulare in tasca, un pc portatile da qualche parte. A parte le tecnologie elettroniche prodotte da tante formichine operaie a Taiwan, o in Cina, o in Vietnam, le batterie durano a lungo perché contengono coltan e litio, minerali estratti, immaginiamo in quali condizioni, nel centro dell’Africa ed in altri paesi (la Bolivia fa gola per questo), teatro di guerre, colpi di stato e massacri, spesso sfruttando rivalità tribali antiche, per accaparrarsi il prezzo migliore. In questo, siamo complici. Anche se la cosa ci si ritorce contro, come vedremo più avanti.

Ma non è solo nei supporti digitali che portiamo addosso il punto, perché consumiamo carburanti fossili che sono da decenni causa di guerre, colpi di stato, devastazioni e massacri. Se poi ci vogliamo aggrappare ai cosiddetti bio-carburanti, a parte la loro natura convenientemente transgenica, questi sono causa di carestie alimentari e disastri economici, dovute al fatto che terreni agricoli prima adibiti alla coltivazione di cibo per la popolazione locale, vengono convertite per il profitto della borghesia locale che si vende alle esigenze dell’imperialismo.

Si potrebbe andare avanti a lungo nell’elenco delle complicità involontarie e tacite con lo sfruttamento ed il massacro delle popolazioni che poi, non certo noi, ma i governi che qui e così ci fanno vivere, respingono con la forza alle frontiere o, quando non hanno convenienza ad impiegarli, in bianco o nero che sia, per paghe da fame ed in condizioni da schiavitù moderna, li rinchiudono in campi di concentramento da cui non sempre escono vivi.

Ma restare su questo tipo di argomenti, significherebbe limitarsi colpevolmente ad argomentazioni di tipo umanitario. Non è giusto. È sbagliato. Non si dovrebbe. Come se si trattasse di formiche schiacciate sul marciapiede di casa. Ed il solo fatto di vederla a questo modo, aumenta la complicità, perché nega la relazione di classe che lega noi a loro.

Una rapida ricerca sui cognomi residenti nelle nostre stesse città di residenza, rivela facilmente la storia di emigrazioni che sempre ci sono state nella storia dell’umanità, e sempre dettate da esigenze di sopravvivenza. Dai popoli che nell’antichità si sono spostati per problemi climatici dall’Africa fino ad arrivare nell’attuale Europa, (siamo figli loro a quanto pare, datevi pace), alle popolazioni del sud Italia colonizzate a colpi di fucile dalla nascente borghesia nazionale con l’aiuto della mafia, costrette a spostarsi al nord per farsi sfruttare nelle fabbriche del boom economico, fino a quelli che fuggono da guerre, carestie, massacri ed impossibilità di sopravvivere, tutto smentisce le teorie razziste di chi parla di invasione ed altro. Di chi, spacciandosi da sinistra (legge Turco-Napolitano) o vantandosi di destra (Bossi-Fini e via dicendo) dipinge gli immigrati, quelli che sopravvivono alla tragedia del ‘viaggio’, come clandestini, invasori, illegali, e li chiude in strutture variamente definite a seconda della fantasia del governo di turno, ma che altro non sono che le moderne Auschwitz, Mauthausen. Poi però si celebra il giorno della memoria, escludendo da questo categorie ed etnie che non vengono utili (comunisti, rom, omosessuali, eccetera).

Gli interessi del capitale hanno una miriade di nomi e definizioni, che spesso cambiano a seconda della convenienza. Oggi sei stato-canaglia, domani fido alleato. Oggi sei operaio garanzia del lavoro su cui è fondata la grande beffa della costituzione, domani sei esubero, esondato, cassintegrato, disoccupato, non in cerca di occupazione. Se sei originario e residente, puoi sperare, anche se non sempre, di cavartela alla bene meglio, se non lo sei…

Ma anche se lo sei, lavoratore o meno, chi più chi meno, problemi per sopravvivere ne hai eccome. Sempre che nel frattempo non ci lasci la pelle sul lavoro o a causa del lavoro con tutte le malattie connesse ma mai riconosciute, o gli ‘infortuni’ per cui i responsabili pagano con quattro spiccioli.E comunque nel frattempo, il tuo tenore di vita, modesto, ovvio, ma pur sempre ben più elevato di quello di chi estrae e produce molto di quello che ti porti addosso e non produci tu, è garantito dalla vita di miseria di questi E che tu lo sappia o no, ti si ritorce contro.

Perché quando ti finisce lo stipendio, e succede molto spesso, compri a credito, con i prestiti, le carte di credito, i ‘puffi’ insomma. E a quel punto sei costretto a lavorare per restituire quei soldi. Sei schiavo. Non solo. Quello che compri, molto spesso, ti rinchiude e ti controlla. Basta provare a pensare a come si è modificata la struttura della ‘famiglia’ nel corso di un solo secolo. Dalla famiglia contadina in cui vivevano insieme nonni, figli, padri e madri, cugini e cugine, e via dicendo, si è passati alla famiglia unicellulare dell’epoca industriale, padre, madre, figli. Arrivando oggi alle famiglie di fatto unicellulari, se non individuali, perché il mercato non ha bisogno di una casa in cui tre-quattro persone condividono un’auto, un telefono, un pc, eccetera, ma di individui che hanno ciascuno il proprio mezzo di locomozione, il proprio telefono, meglio se smart, il proprio pc, eccetera.

È vero che l’industria del tipo classico, quella dell’operaio-massa, qui è stata smantellata, anche se è stata semplicemente ricostruita in altre parti del mondo più convenienti. Ma è evidente che la sostituzione non è stata verso una liberazione, al contrario, verso una subordinazione H24, finito il turno da lavoratore, qualunque cosa tu faccia, inizia quello da consumatore. E non solo per i bisogni, reali o indotti che sia, ma anche dei rapporti sociali esterni al lavoro. Bar, ristorante, stadio, discoteca, ovunque sia, paghi per avere rapporti sociali. Se non rientri in questa dinamica, la guerra strisciante ti arriva addosso attraverso l’isolamento. La de-contestualizzazione sociale.

Ma non basta. Quello che ti porti addosso, sotto forma di telefono mobile, smart o meno, le tessere del supermercato, il bancomat, perché se hai un lavoro devi avere un conto o non riesci a ritirare lo stipendio, la viacard dell’autostrada, tutto serve a controllare dove sei, cosa fai, cosa vuoi o cosa compri. Un telefono cellulare addosso è un microfono addosso, dato che già negli anni sessanta i servizi segreti inglesi erano in grado di utilizzare il telefono fisso come microfono, anche se appeso al supporto. Addirittura in molti posti di lavoro ti mettono addosso un chip che rileva in ogni momento dove sei, e a quel punto, incrociando i dati, anche con chi sei. Non solo, perché fanno di te un bersaglio della pubblicità, del condizionamento dei tuoi gusti ed interessi (non quelli reali ed immediati). Telecamere e biometria fanno il resto, per farla breve.

Tutto questo, è cibo valido per la guerra. Perché con questo si realizzano i capitali investiti nella produzione e nella speculazione finanziaria. Perché questo è ragione delle guerre contro altri popoli e contro chi da questi popoli fugge nella speranza di sopravvivere nella sorgente di chi genera guerra.

C’è solo un altro problema, non trascurabile. Tutti abbiamo notato come le nostre condizioni di vita (e parlo di lavoratori, di padroni e parassiti non vale la pena di parlare) siano peggiorate con l’acutizzarsi della crisi economica, che dal 2008 in poi è arrivata a coinvolgere la struttura del capitalismo. Queste condizioni, se non si sono ancora fatte drammatiche, è proprio per il fatto che altri pagano per noi, ma il gioco non dura per sempre. Gli imperialismi più forti al momento si affrontano sui teatri di guerra esterni per contendersi il mercato, la risorsa di materiale, la base strategica, ma il gioco delle speculazioni finanziarie ha il respiro corto. Se gli USA continuano a stampare moneta che a questo punto ha un valore di poco superiore a quello delle banconote del gioco del Monopoly, appena qualcuno avrà bisogno di andare all’incasso di valuta reale, tutto il castello di carte andrà a rotoli, e allora, altro che guerre di teatro.

Messa in termini elementari e alla base, cioè per noi lavoratori, solo un esempio, ciò che succede in uno dei paesi maggiormente devastati economicamente, politicamente e socialmente: la Palestina. La popolazione, stretta nella morsa dell’assedio, embargo ed aggressione da parte dello stato sionista d’Israele, non ha di che sopravvivere, né di lavoro, e men che mai di sovvenzioni. Campano contraendo debiti, ed a causa dell’insolvenza di questi debiti, migliaia di palestinesi finiscono nelle carceri palestinesi per anni. Molto spesso queste situazioni estreme finiscono per dettare regola. E lo stato di Israele ha spesso fatto da laboratorio sperimentale in fatto di oppressione e repressione.

Non è una visione distopica, ‘È il capitalismo, baby’.

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